Cronaca ambientale
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin uccisi 20 anni fa: gli scheletri nell’armadio e l’assenza di verità
20 anni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin venivano uccisi durante un’esecuzione a Mogadiscio: la rotta dei veleni e delle armi, i servizi segreti, Omar Hassan e i caschi blu
Esecuzione o agguato?
A distanza di 20 anni ci stiamo ancora domandando (erroneamente) in quale contesto siano stati uccisi la giornalista Rai Ilaria Alpi ed il suo cameraman Miran Hrovatin.
Nei dintorni di Mogadiscio, 20 anni fa, la giornalista indagava sul traffico di armi e veleni che univa in un unico filo oleoso e drammatico il corno d’Africa, la Somalia, e l’Italia: un filo tessuto abilmente e abilmente insabbiato, probabilmente dalle stesse mani.
Ilaria e Miran, racconta Massimo Alberizzi su Africa-Express (che Ilaria la conosceva bene), erano arrivati a Mogadiscio il 13 marzo del 1994 assieme al fotoreporter Raffaele Ciriello (ucciso a Ramallah in Cisgiordania nel 2002 da una raffica di colpi partita da un carroarmato) ed alla giornalista Marina Rini ed erano stati immediatamente avvertiti del fatto che alcuni somali stessero preparando un agguato contro “un obiettivo italiano”.
Erano gli anni della missione IBIS in Somalia, sotto il comando dell’Onu i militari italiani avevano l’ingrato compito di pacificare, o quantomeno garantire un minimo di sicurezza, nel paese all’epoca più martoriato d’Africa:
“Nei mesi in Somalia mi è capitato letteralmente di camminare sui morti: a distanza di 20 anni, ancora la notte sogno quei teschi che si frantumano sotto i miei stivali. Con i miei commilitoni abbiamo portato a casa solo orrore ed incubi, quella missione a mio parere fu un mezzo fallimento. […] Quello che ho visto fare da alcuni commilitoni, nel silenzio dei superiori, non posso proprio raccontarlo: posso dire che è stato permesso a molti ufficiali di fare carriera dopo la missione in Somalia solo in cambio del loro silenzio.”
racconta a Ecoblog un ex-parà della missione a Mogadiscio. I somali, spiega Alberizzi (che scrive e racconta l’Africa sul Corriere della Sera da decenni) avevano molti motivi per riserbare rancore verso gli italiani, motivi storici, i più deboli, ma anche altri: racconta Alberizzi che, se la maggior parte degli uomini del contingente Ibis hanno seguito in modo ineccepibile le regole d’ingaggio, il cesto è stato guastato da alcune mele marce. Eccessi ed abusi, mai puniti:
“C’era un tenente colonnello che aveva organizzato il suo personale “tucul delle vedove”. Che vedove non erano. E non era neanche un tucul quello in cui lui le incontrava, ma una casetta dove organizzava orgette e diversivi sessuali. Ma i padri, i mariti, i fratelli di queste vedove erano così felici di vedere un ufficiale italiano che si divertiva con le loro donne? Non nutrivano forse rancore, non hanno chiesto alla fine di essere risarciti e non lo erano stati? E come mai l’ufficiale, allontanato e rispedito in Italia dal generale Bruno Loi è riuscito a tornare in Somalia dopo che il comando del contingente era passato al generale Carmine Fiore?
Per non parlare delle fotografie pubblicate a suo tempo dal settimanale Panorama che mostravano donne oggetto di scherzi di natura sessuale (sto parlando di proiettili introdotti nella vagina di alcune di esse tra le risate generali). Da notare che, nonostante le immagini, i responsabili di quegli episodi efferati non sono mai stati castigati.”
scrive il giornalista, enunciando a titolo esemplificativo solo alcuni episodi (tra l’altro noti) alla base del risentimento (piuttosto generalizzato) che i somali nutrivano nei confronti del contingente. A questi motivi ne vanno sommati altri, più pretestuosi, utilizzati dalla propaganda somala per giustificare attacchi e violenze: i militari italiani, asserragliati sotto i colpi delle mitragliatrici somale per giorni nella villa dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, il 19 marzo del 1994 si ritirarono sulle navi italiane alla fonda davanti la costa.
E’ questo il quadro generale nel quale sono stati ammazzati, un’esecuzione visto che il colpo di grazia è stato sparato alla nuca, Ilaria e Miran.
Ilaria era sulle tracce dei traffici di armi e rifiuti che, dall’Italia, giungevano nel corno d’Africa: un filo tracciato dai servizi segreti italiani, spesso coadiuvati dal braccio armato dei militari italiani dietro il beneplacito internazionale della missione Onu in Somalia: una teoria che, senza prove, occorre lasciare ferma qui. Non possiamo dire con certezza (sospetti a parte) che sia morta perchè aveva scoperto qualcosa.
La Presidente della Camera Laura Boldrini ha chiesto ufficialmente al governo italiano di desecretare gli atti tutelati da segreto di Stato e relativi alle attività di indagine sul caso Alpi: migliaia di pagine che potrebbero raccontarci questa storia forse in modo più puntuale, anche se tardivo. Secondo Alberizzi una parte della responsabilità sul mistero che aleggia attorno alla morte della giornalista e del cameraman è, paradossalmente, proprio dei giornali e delle “teorie del complotto” che da 20 anni svolazzano attorno ai drammatici fatti del 20 marzo 1994.
Teorie non necessariamente fasulle, ma spesso mai avallate da prove, frutto di immaginazione o, peggio, di velenosità della penna di turno: spesso per raccontare una storia occorre farla quadrare e, per fare questo, qualcosa può essere omesso, qualcosa inventato, qualcosa raccontato diversamente. E’ la verità, però, a subirne il drammatico mutamento: personalmente non posso scrivere “sono stati i servizi segreti” o “Ilaria aveva trovato i rifiuti tossici interrati a Bosaso” (anche se nessuno si è mai preso la briga di controllare, scavando), perchè non so. Perchè avevo 9 anni quando il Tg3 uscì con l’edizione straordinaria: quel giorno ho deciso (ah, la fanciullezza!) che nella vita avrei raccontato storie, come Ilaria e Miran.
I primi a giungere sul posto furono i giornalisti italiani Giovanni Porzio e Gabriella Simoni, poi fu il turno di una troupe freelance americana: i militari italiani non mossero un dito. Ma da qui ad affermare che fosse un omicidio su commissione, o che gli italiani fossero la regia dell’omicidio, ce ne passa.
Posso però dire che i servizi segreti (qualcuno aggiunge “deviati”) di navi cariche di veleni ne hanno spostate a decine, e affondate altrettante con l’aiuto della criminalità organizzata: lo posso dire perchè ci sono le sentenze nei processi, le testimonianze, perchè il caso di Natale De Grazia ci consegna una storia avvolta, anch’essa, nel mistero. Posso dire che le Nazioni Unite, in Somalia, hanno voluto far finta di non vedere e posso dire che il contingente italiano, in Somalia, non ha operato nel pieno rispetto del diritto internazionale (ma ciò non vuol dire che quella missione era, in partenza, una missione di violenze).
Nessuno si è mai preso la briga di indagare sui torti subiti dai somali, si è preferito il sensazionalismo della teoria del complotto che fa vendere i giornali ma che ha affossato ancor più la verità; su questo, il giornalista Massimo Alberizzi conduce una solitaria battaglia di verità. La teoria del complotto è stata certamente nutrita dall’atteggiamento laconico della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina:
“Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un’altra storia”
dichiarò lo stesso Taormina a l’Unità, il 7 febbraio 2006.
A 20 anni di distanza, la morte di Ilaria e Miran resta avvolta da un menzognero e sudicio alone di mistero.
Leggi l’intervista a Luciana Alpi, madre di Ilaria, su LaStampa