Inquinamento
Alaska: arenata la piattaforma Shell Kulluk
L’incidente riapre negli Usa il dibattito sulle estrazioni off-shore
La piattaforma per trivellazioni petrolifere della Royal Dutch Shell, Kulluk, si è arenata il 1 gennaio scorso davanti al Parco Nazionale Kodiak, in Alaska, Stati Uniti, con a bordo circa 600mila litri di carburante: pioniera delle nuove attività estrattive artiche la Kulluk misura 81m di diametro, la piattaforma era agganciata ad due rimorchiatori, diretta a Seattle per lavori di manutenzione.
A causa delle condizioni meteo proibitive (onde gelide di 11 metri soffiate da venti a 110km/h) i cavi di traino si sono letteralmente spezzati facendo temere il peggio anche ai 18 operai a bordo della piattaforma, tratti in salvo dagli elicotteri dei soccorsi tempestivamente intervenuti: ora l’incubo è di una nuova Deepwater Horizon, anche se le autorità statunitensi (che monitorano costantemente la situazione) tendono ad allontanare gli allarmismi:
Tutti coloro che sono coinvolti nelle operazioni di salvataggio hanno un obiettivo: recuperare la piattaforma Kulluk senza causare danni all’ambiente
ha dichiarato l’ammiraglio Thomas Stebo, portavoce della Guardia Costiera dell’Alaska.
La Kulluk ha a bordo numerosi serbatoi che contengono in totale 541 mila litri di diesel e 45 mila litri di oli e fluidi idraulici: il timore che questi serbatoi vengano danneggiati e che possano sversarsi in mare gli idrocarburi, con danni probabilmente più gravi di quelli verificatisi nel Golfo del Messico, per via delle condizioni meteo decisamente più proibitive, che allo stato attuale impediscono ai tecnici di salire a bordo della piattaforma per verificare che tutto sia in regola.
Shell ha già fatto sapere che i serbatoi erano già stati rinforzati con paratie d’acciaio di 76 mm l’estate scorsa, quando aveva già subito lavori di ammodernamento da 300 milioni di dollari, ma in un comunicato redatto dalla Guardia Costiera si legge:
Non conosciamo il danno. E’ troppo buio. Il tempo è orrendo: le condizioni meteo estremo e i mari agitati rappresentano ancora un ostacolo.
L’incidente potrebbe rappresentare un colpo mortale al programma di trivellazioni off-shore di Shell, dal valore di 4,5 miliardi di dollari: le polemiche negli Stati Uniti sono già montate, fino al pronunziamento del deputato democratico Ed Markey, capogruppo in Commissione Risorse Naturali:
Le compagnie petrolifere non possono fare ricerche in modo totalmente sicuro nelle condizioni esistenti a quelle latitudini. In caso di incidente le conseguenza per l’ambiente sarebbero disastrose.
La dinamica dell’incidente dimostra effettivamente quanto la sicurezza delle trivellazioni, a quelle latitudini, sia impossibile da garantire: il rimorchio della Kulluk è stato avviato il 27 dicembre scorso, ma il rimorchiatore Alviq ha incontrato una tempesta nel Mare di Bering che ha causato la rottura del cavo di traino; il 28 dicembre si riesce a riagganciare la piattaforma ma, nel tentativo di completare l’operazione rimorchiandola al sicuro a Seattle, Alviq ha avuto un avaria ai motori a 50 miglia a sud Isola di Kodiak.
Il 29 dicembre la piattaforma è stata fatta evacuare dalla Guardia Costiera Usa grazie agli elicotteri, mentre i tecnici e gli operai tentavano di ancorare la Kulluk rallentandone la deriva verso la costa: riagganciata con nuovi cavi di traino il 30 dicembre questi non hanno retto il mare; il nuovo tentativo del 31 dicembre, ormai a 19 miglia dall’isola, sembrava essere andato a buon fine ma nella notte di capodanno la Kulluk ha nuovamente rotto i cavi a 4 miglia dalla costa, incagliandosi definitivamente a Sitkalidak.
Come spiegato da Ben Ayliffe, direttore della campagna polare Greenpeace Usa:
Sappiamo già del terribile impatto che gli sversamenti possono avere in Alaska. Nel 1989 la petroliera Exxon-Valdez si è schiantata a Reef Bligh ed ha sversato centinaia di migliaia di barili di petrolio nel Prince William Sound, ricoprendo vaste aree di mare e di costa con uno spesso rivestimento di greggio e uccidendo migliaia di uccelli marini, lontre, foche ed orche. Ancora oggi la regione ne soffre gli effetti. Purtroppo, questo tipo di incidente, questa volta con la Kulluk, non è nuovo per la Shell. I suoi tentativi di trivellare il petrolio nei mari gelati di Chukchi e Beaufort sono stati funestati da incidenti e disavventure in ogni fase del loro cammino: dalle navi di perforazione arenate ai motori incendiati, dall’insuccesso delle ispezioni si sicurezza alle apparecchiature essenziali che possono essere “schiacciate come una lattina di birra”, i tentativi della Shell di trovare petrolio nella regione artica sono barcollati da una farsa costosa e spericolata ad un’altra.
La speranza è di non veder ripetersi un disastro ambientale di quella portata anche in questo caso: al momento pare che la situazione sia sotto controllo e che non ci siano stati sversamenti, ma è impossibile darne certezza vista l’impossibilità di salire a bordo della Kulluk. Tuttavia, ed è un punto centrale le dibattito Usa, anche questa volta le attività estrattive a largo delle coste Usa si sono dimostrate per l’ennesima volta poco sicure e gestite in modo troppo “facilone” da parte delle grandi compagnie petrolifere mondiali, che da dopo l’incidente della Deepwater Horizon (quella volta la compagnia era la British Petroleum) sono nell’occhio del ciclone per la scarsa sostenibiltà ambientale delle attività estrattive e di ricerca e dei rischi ad esse connessi.
Un dibattito interessante che non dovremmo perderci, visto e considerato che la Basilicata è considerata l’Arabia Saudita d’Europa con il 65% della superficie della Regione (6260 kmq) che è già stata “prenotata” da titoli minerari (sia da quelli già attivi che nelle istanze in attesa di risposta).
Via | Alaska Dispatch
Foto | Us Coast Guard