Parchi & aree protette
Proteste a Gezi Park, la rabbia turca non è solo ambientalismo
Le proteste che pervadono la Turchia, nate dalla manifestazione di Gezi Park, nascono dall’ambientalismo ma sottolineano il senso di smarrimento di un intero popolo.
Le proteste di questi giorni a Gezi Park ad Istanbul, in Turchia, non sono solo la rabbia di un nutrito gruppo di fricchettoni ambientalisti desiderosi di continuare ad abbracciare i 600 alberi nel parco Taksim Gezi che, secondo i piani delle autorità turche, dovrebbero essere abbattuti.
Tantomeno la rabbia di Gezi è un pretesto per inscenare un teatrino di proteste antifondamentaliste (come vi abbiamo spiegato su Polisblog), anticapitaliste o antiliberiste, visto che al posto degli alberi l’idea è quella di edificare un grande centro commerciale.
Dietro la rabbia turca c’è un forte senso di smarrimento di un popolo, quello turco, che teme di perdere la propria identità laica in cui coesistono realtà civili, religiose e sociali molto differenti. Ma andiamo con ordine.
Le proteste a Taksim Gezi Park sono esplose quattro giorni fa, con la pacifica occupazione del parco storico da parte di alcuni manifestanti: se nelle intenzioni delle autorità c’è la chiara intenzione di sventrare tutto per costruire in uno dei punti storicamente più verdi di Istanbul, dalla parte della popolazione c’è la fermissima intenzione di fermare una volta e per tutte un virus, chiamato cementificazione (che anche in Italia conosciamo bene), che ormai pervade l’intero territorio turco.
Ad un nutrito gruppo iniziale nazionalista-kemalista si sono uniti, a Gezi Park, prima i kurdi, poi gli anarchici, poi ancora gli attivisti LGBT, fino addirittura alle tifoserie di Galatasaray e Fenerbahçe (storicamente avverse ma unite in questa battaglia)
Dal progetto per la realizzazione del terzo ponte sul Bosforo (opera che, secondo i manifestanti, prevede il taglio di oltre un milioni di alberi sulle colline attorno ad Istanbul, in modo da decongestionare il traffico bestiale della città) alla cementificazione sempre più selvaggia ed incontrollata, che sta letteralmente smantellando un patrimonio naturale sino ad oggi amato e rispettato, il cambiamento che sta avendo oggi la Turchia è considerato da molti “innaturale”, se non profondamente sbagliato.
Nei piani delle autorità turche per Taksim Gezi Park c’è un progetto, mastodontico secondo chi lo contesta, che prevede l’edificazione di un grande centro commerciale ed alcuni lotti abitativi di alta fascia di prezzo laddove oggi c’è uno dei luoghi simbolo della rivoluzione laica del padre della patria turca Mustafa Kemal Ataturk. Dove oggi c’è Taksim Gezi Park infatti c’era, fino al 1940, una caserma dell’esercito; nel 1936 l’architetto francese Henri Prost venne invitato dal presidente Ataturk ad Istanbul, affinchè potesse contribuire a lanciare la nuova Turchia, laica e democratica. Prost propose, tra le altre opere, l’abbattimento di quella caserma e la realizzazione di un parco che celebrasse la nuova patria fondata da Ataturk e così fu.
Oggi il paese vive un profondo cambiamento, con un processo di islamizzazione che da molti è considerato contrario ai principi laici sanciti costituzionalmente da Ataturk: con il governo di Erdogan infatti sono ricomparsi simboli religiosi negli uffici pubblici, si è reintrodotta la possibilità di utilizzare il velo islamico anche tra i dipendenti statali: il ritorno della religione negli apparati istituzionali è considerato dai kemalisti (chi protesta appellandosi, appunto, ad Ataturk) contrario ai principi di laicità che da oltre 70 anni governano la Turchia (avanguardista in tal senso, almeno all’epoca). Molti vedono in taluni divieti, come ad esempio quello che proibisce la vendita di alcolici nelle ore notturne, di recente approvazione, proprio un tentativo di ingerenza religiosa nella vita pubblica, ma questo non rende le proteste anti-fondamentaliste: non è la religione il problema ma lo Stato.
I fondi statali garantiti per la costruzione di grandi moschee, la rimozione dei vertici dell’esercito, sostituiti da Erdogan con altrettanti, ma filo-islamici, sono tutti elementi di un cambio dell’establishment che i kemalisti non sono più disposti a veder perpetrare nella “laica” Turchia. Se a noi tutti questi elementi possono sembrare “normali”, la presenza di simboli religiosi nei luoghi pubblici (scuole, uffici, etc), l’ingerenza del clero negli affari di Stato, i fondi pubblici per opere religiose, la dipendenza sempre più forte dello Stato dalla religione, e viceversa, in Turchia questo è considerato aberrante, incostituzionale, anti-turco.
In tal senso l’ambientalismo è il pretesto, il buon pretesto, per una protesta più ampia, che ha alla base un senso di smarrimento della propria identità di popolo, nei valori del proprio Stato; e, sempre in tal senso, la reazione dello Stato di fronte a queste proteste, una reazione violenta e che sta avendo come unico risultato il montare continuo della rabbia in tutto il paese (e l’innalzamento della tensione a livelli decisamente stellari), dimostra proprio come gli alberi di Taksim Gezi Park siano un simbolo, un feticcio che il nuovo establishment turco deve estirpare, nel consolidato processo di “modernizzazione” che si sta avendo nel paese.
Gli alberi di Gezi Park sono il guscio vuoto del potere che necessita di forza bruta e cemento armato per essere consolidato, legittimato, costruito sulle macerie dell’ormai vecchia Turchia, quella laica ed avanguardista che 70 anni fa molti in Europa invidiavano: se da un lato il potere concede infrastrutture, telecomunicazioni, libero accesso alla rete internet, dall’altro lo stesso potere utilizza la modernità per cementificare se stesso ad una nuova concezione di Stato e di sviluppo.
E così a Taskim sono state spente le luci e si è passati ai manganelli, ai cannoni ad acqua, ai lacrimogeni ed allo spray urticante al pepe: da ormai due giorni Istanbul è messa a soqquadro da scontri feroci tra la popolazione e le forze dell’ordine, senza tuttavia che la televisione turca ne accenni anche solo qualche secondo: sono i social network ad espandere Gezi Park, e sono i social network il motore, come è stato nella Primavera araba del Maghreb, che fa divenire le proteste e gli scontri di Istanbul virali.
Le proteste si sono espanse in tutto il Paese, da Ankara a Izmir: in queste ore lunghe file di automobili con i clacson strombazzanti stanno convergendo da tutta la Turchia verso Istanbul, perchè anche se per la tv va tutto bene qualcosa sta davvero succedendo: Erdogan, indirettamente e in modo poco strombazzato dai media, ha implicitamente legittimato le proteste spiegando che il governo non cederà di un passo ai “provocatori” e che tutti i “progetti di trasformazione” saranno completati: all’establishment serve cemento e i manifestanti starebbero
“preparando il terreno per un golpe contro il mio governo, civile e democratico.
“
Secondo alcune fonti la posizione oltranzista del primo ministro Erdogan fa a pugni con quella del presidente turco Abdullah Gül (della setta Gulen, che è un gruppo religioso ma dal volto moderno), che ha criticato le violenze della polizia: questo dimostra, in parte, che non si tratta di fondamentalismo islamico contro laicità anarchica, ma di Stato contro cittadinanza.
Uno scontro per e del potere contro tutto ciò che metta in discussione il modello di sviluppo (economico, sociale, culturale) che la Turchia sta attuando.